Introduzione ad una geografia [De]genere

5ahs«Donna non si nasce, si diventa». Così scriveva Simone de Beauvoir ne Il Secondo Sesso (1949), uno dei manifesti del movimento femminista novecentesco, prefigurando in tal modo l’idea che le differenze fra uomini e donne siano delle costruzioni sociali, piuttosto che delle ‘naturali’ conseguenze della diversità biologica.

Nonostante l’intuizione di de Beauvoir, questo convincimento ha iniziato ad essere scardinato, anche nell’ambito della ricerca, relativamente tardi e solamente negli anni Settanta si è iniziato a distinguere tra il dato naturale, biologico, considerato come ‘oggettivo’, e quello sociale, inerente al ‘genere’. Da quel momento in poi il genere è divenuto una categoria rilevante di ricerca e, oltre alla sociologia e all’antropologia, si sono accostate agli studi di genere e ai Queer studies, anche la ricerca storica e, seppur con un certo ritardo, quella geografica.

Cosa significa geografia di genere?

Il senso comune, fra gli studiosi oltre che fra il pubblico, ha lungamente supposto che gli uomini rappresentino ‘l’umanità’, lo standard di riferimento, mentre le donne ne costituirebbero una ‘variante’ . Questo ha fatto sì che anche la geografia critica e radicale, pur impegnata nell’indagine relativa a categorie analitiche come quelle di classe, etnicità o razza, dimenticasse di esaminare con esse anche il genere.

La riflessione iniziale sull’argomento è stata avviata a partire dalle teorie femministe che hanno volto l’attenzione al mondo del lavoro e alla divisione del lavoro per generi, mettendo in evidenza la dicotomia esistente tra lavoro riproduttivo, assegnato alle donne, e lavoro produttivo, di competenza prevalentemente maschile. La geografia femminista si è sviluppata a partire da queste prospettive, incorporando i contributi teorici del femminismo alla spiegazione e interpretazione dei fatti geografici. Uno dei suoi manifesti più significativi è Geography and Gender. An Introduction to Feminist Geography, pubblicato nel 1984 dal Women and Geography Group dell’Institute of British Geographers. Il volume ha il merito di aver dato legittimità scientifica alla geografia femminista, consacrandola definitivamente come una branca della geografia tout court, con un approccio che mette in evidenza l’esclusione delle donne da posizioni sociali legate ad autorità e potere, ma non pone in discussione la legittimazione delle disuguaglianze né tanto meno evidenzia la natura totalitaria e oppressiva di qualsiasi atteggiamento che la disconosca.

In una fase successiva, con l’affermarsi del femminismo post-strutturalista, la geografia ha cominciato ad affrontare l’interpretazione delle differenze sessuali e di genere con un atteggiamento di tipo decostruzionista; in questo modo, la geografia femminista ha iniziato a configurarsi in quanto analisi delle relazioni di genere come costruzioni sociali. In tale ottica, le differenze di genere vengono analizzate come fenomeni legati a logiche di potere, in cui l’opposizione binaria uomo/donna costruisce e legittima le differenze, mostrandole come ‘naturali’ e necessarie.

Su queste basi, la geografia di genere è andata ad investigare e a criticare anche il meccanismo di produzione della conoscenza geografica, rilevando come la disciplina tradizionale abbia operato attraverso un’epistemologia di tipo maschilista, cioè attraverso un metodo di conoscenza basato sull’idea di universalità dei concetti, di schematizzazione e di rappresentazione oggettiva del mondo. Secondo la logica conoscitiva ‘universalistica’ della geografia classica, lo studioso assume una god’s-eye view, vale a dire presume di godere di una posizione da cui il mondo può essere contemplato dall’alto, nella sua totalità. La prospettiva androcentrica legittima una visione del mondo espressa da un punto di vista maschile, presentato invece come il riferimento della società nel suo complesso. La produzione della conoscenza viene svolta secondo il principio gerarchico della dominazione maschile che pone gli uomini come un gruppo di riferimento mai nominato in quanto tale, dal momento che passa come genere neutro e puramente oggettivo.

La critica femminista ha messo in discussione la procedura scientifica secondo cui il mondo può essere esaminato ‘da fuori’, in maniera ‘oggettiva’ da parte di un ricercatore (uomo, bianco, occidentale) concepito come esterno alla realtà osservata, cosa che alimenta l’idea che la ricerca scientifica sia a-politica, sottolineando come sia necessario dare attenzione al processo attraverso il quale le categorie vengono formate piuttosto che agli oggetti contenuti al loro interno. Viene così aperta la strada all’uso di «strumenti di indagine che si focalizzano sui soggetti e che mettono in luce gli aspetti ‘nascosti’, irrazionali, motivazionali, sentimentali, esistenziali, connessi con il coinvolgimento degli individui nelle azioni spaziali.» Storie di vita, biografie personali, inchieste, interviste individuali, produzioni letterarie e artistiche, narrative, confronti generazionali, vengono ad affiancare i metodi tradizionali di indagine, dando finalmente il giusto rilievo alla componente soggettiva della ricerca e valorizzando i prodotti dell’incontro tra ricercatore/trice e narratore/trice.

Oggi, la geografia di genere non si limita ad analizzare i concetti tradizionali della disciplina geografica (regione, paesaggio, luogo…) attraverso l’epistemologia femminista, ma porta alla luce nuovi oggetti di analisi, come per esempio le relazioni che possono esistere fra modelli di genere e costruzioni storico-sociali legate allo spazio politico, oppure al corpo. Essa, quindi, abbraccia le tematiche dello sviluppo, del paesaggio e dell’ambiente care alla geografia tradizionale, integrandole con le riflessioni dell’approccio critico alla ‘nuova’ geografia culturale, politica e regionale e procede così a dialogare e tracciare connessioni con altri approcci di studio quali la filosofia, i Cultural studies, l’antropologia, gli studi postcoloniali, l’economia e la sociologia.

In sintesi, negli ultimi trent’anni, tre principali approcci teoretici sono stati utilizzati dalla geografia per esplorare il genere: genere come differenza, genere come relazione sociale e genere come narrazione discorsiva…

La tradizione geografica ha sempre dato risalto al ruolo degli uomini nelle esplorazioni geografiche e nelle conquiste territoriali. La pratica del viaggio si è quindi tradotta in una trascrizione della realtà e dei luoghi attraverso una dimensione gendered positioned che è andata col tempo naturalizzandosi. Il contesto accademico ha legittimato questo ‘punto di vista’, trasformandolo in sguardo disincantato, distanziato, capace di oggettività scientifica, così come il paradigma positivista permetteva di credere. La geografia, scienza della conquista e dell’appropriazione dello spazio, è stata lungamente marcata da una prospettiva sessuata. Durante tutto il XIX secolo, nei resoconti di viaggio e nelle geo-scritture le donne erano l’eterno assente. Il discorso e il potere coloniale operavano infatti attraverso una complessa intersezione di costruzioni sociali basate tanto sulle categorie di razza e classe, quanto su quelle di genere e sessualità. La geografia femminista in tal proposito ha denunciato l’appropriazione di alcuni termini della sfera sessuale da parte della scrittura delle prime avventure d’oltremare. Così, la ‘scoperta’ delle ‘terre vergini’ viene narrata come un atto che mette in valore non solo l’avanzata della ‘civilizzazione’ in una natura selvaggia femminilizzata, ma anche il piacere virile della penetrazione e del possesso, mentre l’esploratore europeo si rapporta alla terra ‘da scoprire’ come ad una bella donna affascinante, misteriosa e imprevedibile, che necessita di quella razionalità maschile estranea all’universo femminile. I Gender studies hanno contribuito a denunciare l’intimo legame esistente tra l’imperialismo e ciò che Spivak chiama “la pratica del maschilismo”: il modo nel quale l’imperialismo dipende dal possesso maschilista delle virgin lands e dall’addomesticamento patriarcale della wilderness femminile.

Il pionieristico studio di Ester Boserup, Women’s role in economic development del 1970, da l’avvio alla riflessione su genere e sviluppo. L’autrice evidenzia l’importanza del lavoro delle donne (portato avanti con le tecnologie tradizionali per assicurare l’agricoltura di sussistenza) e critica le politiche agricole coloniali e post-coloniali che consacrano la scissione tra le colture di rendita – fatte dagli uomini che godevano di credito e di tecnologie moderne – e le colture di sussistenza, poco considerate, svolte dalle donne con le tecnologie tradizionali. Da queste riflessioni si apre lo studio del lavoro produttivo delle donne, della divisione sessuale del lavoro e dell’impatto dei progetti di sviluppo sulle donne.

Questo approccio ha il merito di aver portato alla luce le discriminazioni cui sono soggette le donne in molte parti del mondo e di aver posto l’attenzione sulla femminilizzazione della povertà. Ha, inoltre, suscitato un dibattito importante sul ruolo delle donne nei processi di sviluppo, stimolando la produzione di dati statistici disaggregati per genere. Allo stesso tempo, però, il fatto di considerare le donne isolatamente si è rivelato inefficace, dal momento che esse sono già parte pregnante dei processi di sviluppo e i modelli (western oriented, spesso calati dall’alto) le schiacciano, non riconoscendo loro un ruolo uguale a quello degli uomini. Per questa ragione, dagli anni Ottanta in poi è emerso un approccio allo sviluppo che ha puntato al rafforzamento del potere della componente femminile della popolazione. Esso persegue il fine di dare alle donne più potere e autonomia, promuovendo un approccio di tipo partecipativo e collettivo, attraverso pratiche ‘dal basso’ che rispondano anche ai loro interessi strategici. La retorica dominante all’interno delle organizzazioni, governative e non, ha iniziato così a porre l’accento sul ruolo delle donne come attrici fondamentali dello sviluppo.

Il paradigma su cui si basano questi approcci è quello della diversità. Esso presenta il limite di considerare il soggetto ‘donna’ come un ‘oggetto’ di ricerca; ma l’articolazione delle questioni femminili in seno alle problematiche della società nel suo insieme rischia di rimanere difettosa, se le donne continuano a essere considerate come soggetto ‘a parte’. Ancora più problematico è il presupposto di base, ovvero che non viene messo in discussione che esista una categoria ‘donna’, un insieme monolitico (seppur con le sue diversità regionali e locali) che rappresenta un’eccezione alla norma. Parlando di ‘donna’ infatti si alimenta l’idea che la normalità sia rappresentata da soggetti maschili e, nello specifico, parlando di ‘donne attrici dello sviluppo’, si dà per scontato che lo ‘sviluppo’ sia altrimenti portato avanti dagli uomini, alimentando la persistenza di tutta una serie di binomi (uomo/tecnologia, donna/natura).

Uapm7FjSei stata la prima in Italia a usare il concetto di eteronormatività spaziale in un libro, puoi spiegare in parole semplici il significato?

Lo spazio pubblico è concepito in relazione al binomio giusto/sbagliato, lecito/illecito, omosessuale/eterosessuale. Tali categorie diventano i parametri attraverso cui esso viene pensato e gestito. Nello spazio (quello urbano in particolare) possiamo, di conseguenza, leggere tutti quei meccanismi di inclusione/esclusione che sono il riflesso della costruzione discorsiva dei generi. Ciò che dà potere allo spazio normativo è la sua presunta ‘neutralità’, sostenuta dalla naturalizzazione della divisione tra spazio pubblico e spazio privato. L’eteronormatività dello spazio viene così celata e data per scontata. L’eteronormatività è la naturalizzazione dell’eterosessualità quale ‘normale’ espressione delle relazioni sessuali. Attraverso l’analisi di questo concetto, i Queer studies sono stati in grado di mettere in discussione la sessualità normativa, ovvero ciò che viene considerato ‘giusto’ e ‘normale’ – e quindi acquisisce il diritto di essere manifestato all’interno dello spazio pubblico – e di riflettere sulle diverse violazioni delle regole di sessualità e di genere.

Il filone di pensiero queer ha messo in discussione le etichette sessuali ed ha portato alla luce l’esistenza di tutte le declinazioni multiple e creative del desiderio e dei suoi oggetti. Il termine rimanda alla fenomenologia dello ‘strano’ e di tutte le sue accezioni (eccentrico, dubbio, poco chiaro, deviante) fino a prendere la connotazione dispregiativa (checca, finocchio) che ne ha dato la lingua dell’eterosessualità normativa. Il termine è stato quindi ripreso e riabilitato, al fine di conferirgli una connotazione positiva. La teoria queer vuole esercitare una funzione sovversiva di quell’ordine prestabilito che opprime le voci e le identità diverse da quella ‘normata’ e di giocare con i codici e con i simboli dell’eterosessualità.

Queste riflessioni sono state sviluppate dal lesbofemminismo e riprese da Judith Butler, in particolare nel suo libro Gender Trouble del 1990. La Butler si schiera contro l’impostazione femminista della differenza, affermando la necessità primaria di combattere il paradigma eterosessuale. Lo sforzo di delimitare e definire il sesso, che ha accompagnato tutta la cultura occidentale, impedisce, infatti, di comprendere a fondo le relazioni di potere ad esso legate. La sua tesi, nel testo Bodies that Matter del 1993 (tradotto in italiano con Corpi che contano, 1996), è che l’egemonia maschilista discenda direttamente dall’egemonia eterosessuale, che ha rafforzato e radicato il binomio maschile/femminile. Molto spesso l’eterosessualità istituzionalizzata è stata studiata in relazione al suo ruolo nel regolare l’omosessualità. Questo approccio però resta limitativo se non si considera che l’eterosessualità normativa ha un effetto negativo proprio sulla eterosessualità stessa.

Il discorso eteronormativo è fortemente coercitivo anche verso l’eterosessualità e non solo verso l’omosessualità, come invece si è abituati a pensare. Come prescrive i comportamenti ‘da non assumere’ allo stesso tempo codifica fortemente i comportamenti considerati ‘normali’ e ‘giusti’. Come le persone non eterosessuali vengono emarginate da questo discorso, così le persone eterosessuali si trovano ad essere obbligate a conformarsi ad esso e ad assumere tutta una serie di atteggiamenti che caratterizzano la femminilità e la mascolinità normativa. Si pensi, ad esempio, ai comportamenti definiti ‘deviati’ (e quindi ‘devianti’ per il resto della comunità) e alla violenza con la quale viene represso ogni atteggiamento che non rispecchi l’idea socialmente costruita di uomo e di donna. Per la formazione dell’identità di molti individui, infatti, è fondamentale che essi vengano riconosciuti come ‘veri’ uomini o ‘vere’ donne e questo significa sanzionare quelle tendenze che lederebbero l’immagine (eterosessuale) che si vuole dare di sé.

Questo tipo di concezione si traduce spazialmente in una gestione dei luoghi fortemente normativizzata. Esistono, infatti, luoghi socialmente destinati alle donne (non solo la casa ma anche centri di bellezza, scuole e asili – dato che la cura dei figli è appannaggio delle mamme – toilette nei luoghi pubblici). Per questa ragione molti lavori geografici analizzano come l’eterosessualità compulsiva si iscriva spazialmente, ovvero come il concetto si traduca in una spazializzazione delle relazioni sociali di genere. Una volta istituzionalizzata, quindi, l’eterosessualità normativa regola chi rientra nei suoi parametri allo stesso modo in cui marginalizza e sanziona coloro che ne stanno fuori. Per questo motivo parliamo di ‘violenza’ e di controllo dei corpi, dal momento che tutto ciò che sfugge ai ruoli tradizionali di genere e alla monogamia a vita viene sanzionato.

Le connessioni empiriche tra genere e sessualità sono importanti al fine di comprendere i modi in cui le pratiche sessuali, i desideri e le identità sono sempre inseriti all’interno di relazioni sociali non sessuali, la maggior parte delle quali si basano sul genere. La normalizzazione dell’eterosessualità diviene il dispositivo attraverso cui gli spazi vengono disciplinati e gestiti, grazie alla divisione di origine patriarcale tra spazio pubblico e spazio privato, non più solo spazio maschile e spazio femminile ma anche spazio eterosessuale e spazio queer.

Attualmente si fa un gran parlare della “sicurezza” delle donne che “girano in città” da sole cosa ne pensi?

L’approccio alla richiesta di sicurezza da parte delle donne mette in gioco molti nodi politici, in particolare la questione del rapporto tra spazio pubblico e spazio privato e del rapporto tra spazio e corpo. Ciò che dà potere allo spazio normativo è la sua presunta ‘neutralità’. La natura gendered dello spazio sociale viene nascosta dietro la naturalizzazione della divisione tra spazio pubblico e spazio privato, riflesso della divisione della vita sociale in pubblica e privata. L’organizzazione degli spazi urbani contribuisce a radicare questa divisione ed a rafforzare l’idea che il corpo femminile nello spazio pubblico sia out of place, che si trovi nel posto sbagliato, specialmente la notte.

La critica femminista ha segnalato come la pianificazione urbana rifletta una visione del mondo maschilista. L’analisi delle città contemporanee attraverso una prospettiva di genere è stata affrontata sotto vari aspetti; tuttavia, la riflessione sembra essere rimasta incastrata nelle fitte maglie delle pubbliche amministrazioni, non riuscendo a diffondersi in maniera capillare e consolidata presso i cittadini. ‘La città delle donne’ sembra destinata a rimanere un discorso politico, che non mette mai in discussione le basi consolidate sulle quali sono costruite la differenza e la disuguaglianza.

Le procedure di pianificazione, nella maggior parte dei casi, non riconoscono la centralità del potere nelle relazioni di genere e celano il suo impatto rispetto al diverso accesso alle conoscenze e alle risorse urbane. Il dominio delle relazioni di potere negli spazi pubblici, poi, è espresso dalla paura e dal senso di insicurezza (nei trasporti pubblici, nei parchi cittadini, nei sottopassaggi, in tutti quei luoghi che presentano ‘angoli bui’) che caratterizza l’esperienza urbana femminile. Le norme patriarcali si traducono in un abbigliamento femminile considerato ‘adatto’ a certi luoghi e ‘sconveniente’ per altri, che trasforma alcuni spazi pubblici della città in luoghi ‘proibiti’.

Il patriarcato trae legittimità proprio dall’idea che esistano ‘per natura’ il ‘sesso debole’ e il ‘sesso forte’ e che il ‘sesso forte’ debba tenere le redini. La donna invece, in quanto debole, deve essere protetta, mantenuta, subordinata. Su analoghe basi si alimenta la costruzione sociale della ‘femminilità’ e della ‘maschilità’ (o meglio, delle femminilità e delle mascolinità). Inutile sottolineare come proprio questa idea di ‘natura’ e ‘contro natura’ venga impiegata nella costruzione del discorso omofobico sull’omosessualità.

Anche l’analisi degli spazi secondo una prospettiva di genere post-strutturalista permette di vedere come essi incorporino e riflettano le strutture di potere che, grazie al discorso di genere, si riproducono e vengono naturalizzate. A mio avviso, parlare di spazio privato riporta ad una idea individualista dello spazio: preferirei parlare di spazio intimo che è presente sia all’interno sia all’esterno delle mura domestiche. Prendiamo come esempio la scena postporno; le case delle performer, che sono tutte attiviste politiche non è concepito per un uso privato ma come un punto di ritrovo per organizzare il proprio stare nello spazio pubblico. Lo spazio della casa e dei collettivi, per esempio, posso diventare dei luoghi di transizione in cui le persone possono fare un percorso collettivo, quindi sono i luoghi in cui ci si ritrova per attivare l’impoteramento. Sono spazi in cui è possibile imparare a riappropriarsi del proprio corpo a livello individuale trasformandolo, tramite un lavoro comune, in corpo collettivo per poi investire lo spazio pubblico.

Far diventare lo spazio pubblico adatto alle donne, ad esempio con l’uso della luce, è una delle questioni che le urbaniste, già dagli anni Novanta, avevano posto in chiave problematica, perché non andava a rompere i meccanismi del sistema che produceva questa paura. Su questo punto interessanti sono i lavori della svizzera Marylène Lieber che parla non di paura ma di sentimento di insicurezza dando così risalto a come proprio il fatto di mettere in campo una serie di “politiche per la sicurezza” generi insicurezza.

Ampliando questo aspetto ad un livello sovracittadino, possiamo affermare che il discorso geopolitico tradizionale contribuisce ad attribuire il ruolo di aggressori/liberatori/protettori agli uomini e quello di madri/riproduttrici/vittime alle donne. Così, la sicurezza nazionale è letta in termini di protezione maschile nei confronti di women-and-children. Nel discorso nazional-patriottico questa lettura in termini di genere arriva ad assegnare ai corpi dei membri della nazione un significato differenziato marcando, attraverso la retorica del sacrificio dell’eroico combattente, il corpo dell’uomo (del soldato) come il corpo che deve essere pronto ad essere sacrificato; quello della donna come il corpo, che deve essere a tutti costi difeso (o violato). Questa associazione è ulteriormente enfatizzata quando nell’immaginario nazionale l’iconografia della ‘patria’ viene incorporata in quella della figura femminile (la Marianna francese) o addirittura materna (la Madre Russia) o, in misura ancora più evidente, nella mistica Madre India.

L’associazione fra il corpo della madre e quello della nazione non si limita ad avere valenze simboliche o figurative; non c’è bisogno di ricorrere ad interpretazioni psicoanalitiche per capire come vi sia una chiara connessione fra una iconografia nazionale costruita in termini di genere (maschio difensore/protettore/procacciatore dello spazio vitale – femmina moglie-madre) e le violenze sul corpo femminile perpetrate in innumerevoli scenari di guerra. Nel caso degli stupri di guerra, il corpo diventa il confine biopolitico cruciale, nel quadro di un conflitto fra entità ‘nazionali’ che si oppongono fra loro; in particolare, la trasfigurazione della nazione nella simbologia femminile fa del corpo dell’uomo un’arma di aggressione e di quello della donna un campo di battaglia. In questo caso, se la decostruzione delle somatopie nazionali può aiutare ad interpretare il rapporto genere-nazione, l’analisi post-strutturalista dei modelli di mascolinità può validamente essere impiegata per leggere la connessione fra modelli ‘nazionali’ di maschilità, violenza e aggressività politica degli Stati. Narrative nazionali e modelli di genere si intersecano in questo modo con la storia.

Difficile dire quale ambito della ricerca geografica possa oggi fare a meno di un approccio di genere. Come possiamo concludere questa intervista?

A mio avviso attualmente c’è una geografia di genere che si è staccata dal femminismo: per una serie di ragioni in alcuni contesti, soprattutto in Italia e in parte in Francia, si è dimenticato questo approccio politico che invece è fondamentale. Una geografia che analizza lo spazio, che analizza i luoghi da una prospettiva di genere e che non tiene conto o che non esplicita la prospettiva femminista, che si traduce poi in pratiche femministe di insegnamento, di ricerca, di visione dello spazio e di uso del corpo, non ha senso.

La geografia di genere sta perdendo gran parte della sua potenza e si sta sempre di più mainstrimizzando. Parlare di geografia di genere senza parlare di femminismo e, come nel mio caso, di approccio anarcofemminista e transfemminista allo spazio, significa non tenere conto di quanto le categorie di genere e sessualità siano legate e intersecate ad altre categorie (come la classe, la razza, l’età, l’abilità). È quindi necessario, come hanno rilevato le femministe nere americane, che la critica al sistema patriarcale e ai rapporti di dominazione, che hanno la loro applicazione nello spazio, parta da un approccio intersezionale, che tenga conto degli effetti dell’embricazione delle differenti categorie.

Questo è l’unico modo per uscire in modo radicale da un approccio per sovrapposizioni (uomo/donna, sano/non sano, etc) – il punto è vedere come tutti questi dati si interconnettono e soprattutto come evolvono nel tempo. La geografia di genere, poi, è anche una scelta di metodo, che chiede di imparare a guardare oggetti e ad ascoltare voci che altrimenti sarebbero rimasti subalterni e nascosti, imparare ad ascoltare le storie delle/degli altre/altri invece che sovrapporre ad esse la propria visione ‘dall’alto’; ma, soprattutto, è una prospettiva, che spinge ad uscire dalle ‘gabbie’ concettuali, per imparare a dis/imparare il genere e, più in generale, a smascherare tutti quei meccanismi che ci impongono una lettura egemonica ed eteronormata della realtà che ci circonda e dei rapporti di dominazione che partono da posizioni privilegiate non riconosciute.

A cura di Francesca Goldman

*Geografa transfemminista pornoattivista docente di Geografia della sessualitá alla Universitá della Sorbona. Nel 2014 ha fondato Zarra Bonheur, un progetto collettivo transnazionale a geometria variabile di ricerca e performance su genere, spazio pubblico e sessualitá dissidenti. Vedi http://www.zarrabonheur.org/

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